American Dust

Di Richard Brautigan


con

Titino Carrara, Giorgia Antonelli

regia

Titino Carrara



Un lago, piccolo, ed un pontile, mezzo affondato.

Su quel pontile si alternano due voci: quella di un ragazzo di dodici anni, nell’estate del ’47, e quella di quello stesso ragazzo diventato uomo, nell’estate del ’79.

Il ragazzo e l’uomo guardano la sponda opposta.

Attese, ricordi.

Estate del ’47. Tutte le sere, al tramonto, arriva sulla sponda opposta un furgonaccio stracarico di mobili in una nuvola di polvere. Scendono due grassoni in salopette e scarpe da tennis e scaricano barbecue, abatjour, tavolini, e un pachiderma di divano, enorme, lo piazzano sull’erba a due spanne dall’acqua e si mettono a pescare pesci gatto. Tutte le sere, al tramonto, il ragazzo è lì, in quel piccolo lago dell’Oregon, ad aspettarli.

L’impazienza dell’adolescenza si mescola al desiderio della maturità di fermare il tempo, di farlo tornare indietro

all’ultima istantanea della mia infanzia, prima che il vento si portasse via questa polvere, polvere americana”.

La vicenda è un miraggio, il miraggio del passato che inizia da quel pontile e termina sulla sponda opposta. Nel mezzo, intrecciati ai rimpianti e alle nostalgie dell’uomo adulto, scorrono le avventure e le speranze del ragazzino, incontri poetici e bizzarri: il custode della segheria perennemente ubriaco, il vecchio eremita con la barba bianca giallo schifo di tabacco, la figlia dell’impresario di pompe funebri con le mani come margherite bianche sbocciate in cima all’Everest, la vecchia dalle mani rugose.

Il ragazzo vede ovunque l’incanto della bellezza e lo elabora con la forza prepotente dell’immaginazione.

L’uomo adulto vede l’urgenza di tenere insieme queste schegge di passato, e se ne sta con l’orecchio premuto sul passato, come il muro di una casa che non c’è più.

“Peccato non aver preso al volo quella pallottola per infilarla nel calibro 22. Peccato non poterla fare tornare indietro, come non fosse mai esplosa, mai caricata, peccato. Vorrei tanto essere entrato nel ristorante e non nell’armeria a fianco: facevano ottimi hamburger, ma non avevo fame.

La vita di Whithey è un viaggio nelle pieghe del sogno americano. Hamburger, proiettili, speranze ed illusioni…prima che il vento si porti via tutto.

Romanzi del genere li riesci a scrivere solo se hai visto il fondo della sconfitta, o se sei già morto: non sei capace di quella intensità mite, di quella convalescente economia di parole se sei ancora vivo, o vincente. Per urlare così sottovoce, devi essere finito. Allora ti spetta una dolcezza che, in compenso, è infinita.

A. Baricco


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